MARCO PALASCIANO
MITI E MOSTRI
DEL MONDO “MAISTERIOSO”
COMMENTO A 17 OPERE DI ANGELO MAISTO
O angelico magistro di ludica poesia, di gelida ironia!
Strano universo – con dèi finanche piú capricciosi dei nostri – è quello le cui creature si lasciano intravedere per le finestre che sono i quadri di Angelo Maisto (alias, per gusto neorinascimentale, l’Agnolo).
O talvolta prendono corpo, i graziosi mostri: e invadono il nostro mondo come statue.
L’IMPOSSIBILE STIRPE DELLA BALIA
1.
Fondamentale nella mitologia maistiana è la «balia».
Questo tragico essere è privo non solo delle zampe posteriori, ma di una posterità: è condannato a divorare le sue stesse uova, a mano a mano che le depone; e di ciò piange, ma non può fermarsi.
Diversamente che con la proverbiale gallina, ci troviamo di fronte a uno statuto genealogico certo: certamente è venuta prima la balia e poi l’uovo, giacché da nessun uovo nascerà una nuova balia.
2.
Cionondimeno, vi è evoluzione.
Ecco una protobalia, ancor priva di testa: testa che un paleontologo frettoloso ha surrogato con una lampadina (allo stesso scienziato qualcuno sottrarrà un osso, di non si sa quale straordinario animale, per farne un piatto per dei peperoni).
3.
Una xilografia ci mostra una balia quasi uccello, uccello savio che coi suoi occhi sferici contempla tre vasi.
4.
Lo stadio finale sarà probabilmente quello dell’uccello pazzo di un’ulteriore xilografia, che ne mostra il capo, da cui si irradia – totalmente inutile – la piú pura felicità.
5.
Intanto, per risonanza genetica, un geco preistorico vede la sua coda segmentarsi come la coda-utero baliesca.
SFERE
6.
Altrove una bianca sfera, essere perfetto, esiliata nel nostro mondo si corrompe: perde la capacità di volare e, disperata, tenta di assumere forma d’uccello, attraendo a sé scarti di vita (le sue gonadi furono il sonaglino di un nipotino dell’artista; il ferro che collega le sue zampe, pezzi di mobiletto tolti all’immondezzaio, è souvenir – ve lo giuro – di un’operazione al femore d’una zia): e diviene un «pipacottero».
7.
Una seconda «ludoscultura» (tale è l’attuale campo di ricerca dell’artista, con un occhio al Picasso del toro-bici e l’altro ai munnezz-muppets delle
Avventure di Elmo in Brontolandia) si propone sulla scena: un «cangupollo» (il cui torso era un tempo una mezza matrjoska, dai colori distrutti, parassitata dalle fronde pervenute dal mondo «maisterioso» per diventare ali).
Lui il suo uovo, sfera rosea visibile nel ventre trasparente, non l’ha ancora deposto.
Speriamo non sia affetto, come la balia, dalla sindrome di Crono.
8.
Sfere incorrotte sorvolano, visibili dai nostri quadri-finestra, il suolo dell’altrove sognato dall’artista.
In rigorose schiere, portando seco enigma e meraviglia, dànno spettacolo di sé al bambino e al padre che gliele addita, anagogiche e mute come numeri della cabala,
9.
o stazionano – quali nel cielo, quali sulla terra – in zona disabitata, spettatrici di sé sole.
10.
Ben altro teatro è quello delle zucche, sfere imperfette e mai perfettibili, pseudouranie figlie dello ctonio che tantalicamente non berranno mai – prive di bocche, come di mani per afferrare le tazzine – il tè che le aspetta raggelandosi su un tavolino dalla forma allusivamente ottagonale: fusione di cerchio, che è cielo, e di quadrato, che è terra, esso significherà piuttosto la reciproca contaminazione dei due elementi che non il loro matrimonio alchemico.
Due finestrelle dànno sul nulla.
IL CABALEONTE
11.
E un’altra «stanza immemore» – cosí l’Agnolo me la chiama, incauto – è quella dell’ermafrodito «cabaleonte», il mostro piú mostruoso, stanza che si affaccia sul crepuscolo dell’umano.
Il cabaleonte è bipede senza braccia, certamente implume ma non altrettanto certamente con un’anima, benché il suo volto sia inizialmente quello di un uomo.
Il suo torso è quasi tutto un enorme glande, il cui meato è una vagina.
Da qui, tre cateteri raggiungono tre vasi, nei quali riversano il sangue, sangue che viene quindi nuovamente risucchiato all’interno del corpo, per poi rifluire all’esterno, come fosse respiro, eternamente.
12.
Passando dal dipinto alla xilografia, si nota che la testa è cambiata: il processo degenerativo dell’homo sapiens è arrivato dove voleva arrivare.
VASI
13.
Diversa cateterizzazione è quella tra i due vasi, l’uno madre e l’altro figlio, che in altra xilografia raffigurano una maternità: qui si tratta, ovviamente, di un cordone ombelicale.
Il vaso madre è quello che fu osservato dall’artista a Pompei, un giorno, tra le rovine di un’osteria antica.
14.
Vasi ritornano in altre opere: ora presso quel «troppo umano» umano (i cui baffi hanno un che di catetere cabaleontico, piú che di ritrattistica nietzschiana),
3.
ora presso quel savio uccello-balia;
15.
ora vi è ricetto del brodo, come quello in cui attende di immergersi uno scorporato orecchio (cinque dipinti, ciascuno su ciascun senso, dovevano essere; e solo l’udito è stato),
16.
ora indefiniti liquidi o liquami, come nel vaso fra i rami del «nichilistico» albero che spunta dichiaratamente senza un perché – e anche il titolo [1] «era un bel titolo», semplicemente – da un teschio solitario.
Da altri rami pende o canta, tra elementi neutri come foglie e fruttini e una cappella di fungo verde, qualche esplicito simbolo di vizio: il pettirosso, che in Bosch (e tanto Bosch è in Maisto) vale lussuria; il dado; il sonaglino – rieccolo – che addita il ripiegarsi sull’infanzia, vizio sommo (delle anime somme).
LE TAVOLE E LE TELE
Le tavole su cui sono dipinti i dipinti dell’Agnolo sono spesso raccolte dalla spazzatura: poche sono le tele, che in genere gli vengono regalate.
Il suo lavorio è immersione immediata nella materia; intensa è la manualità, lo spandimento di sudori e altri umori, la sporcizia.
17.
Un bel colpo, quanto a ritrovamento, fu la lunetta di legno su cui è germinata l’opera senza titolo con volto di Nietzsche (lettura dell’artista in quel momento), il cane appena morto di un amico, e varie figure suggerite dalle macchie della superficie vergine dell’oggetto, còlte e chiamate a definizione dal pennello: un teschio, un novissimo uccello, una pecora simboleggiante il «gregge» umano, altre bestiole e dèmoni, un mezzo volto di donna il cui occhio era una tacca, e altre volanti sfere una delle quali è in realtà un buco nel legno.
I MATERIALI DELLE LUDOSCULTURE
A immondizia e dintorni l’artista deve molto, e molto a lui devono gli oggetti – non solo tavole e tavolette – cui la sua arte dona vita nuova.
Salvati dalle discariche, o da cassetti immemori (e la pipa che il padre non piú fuma si sublima nella testa del pipacottero), confluiscono nella sua cassetta degli attrezzi a comporre quel delicato caos che vedete in copertina [2], dal quale verranno prima o poi estratti a demiurgarsi in ludosculture.
Dentro le quali, magari, egli nasconderà – come in qualche scultura ha già nascosto – altri oggetti, e sostanze, per rito e per ricordo, di cui non fa sapere: e per conoscere i quali, occorrerebbe distruggere le opere, e frugare; ma ciò sarebbe assurdo, sarebbe amore che divora il proprio oggetto e giungendo al suo estremo nega sé, e perciò restano cose inconoscibili, come la verità sulla vita, che non si può esperire sezionando un organismo morto.
Capua, 15 aprile 2005
NOTE
[1] Nichilismo vegetale.
[2] Questo testo è nato come introduzione a un catalogo di Angelo Maisto, sulla cui copertina si trovava fotografata, per l’appunto, la sua cassetta degli attrezzi.Edited by Hamlet da Hamelin - 18/6/2007, 00:54