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Perché c'è l'essere invece del nulla?, E perché ci poniamo questa domanda?

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Outisemeuzontos
view post Posted on 13/9/2006, 22:33 by: Outisemeuzontos




Inserisci pure il link (avrei voluto farlo io ma non mi riusciva).

Però vorrei precisare che il discorso verteva su diversi piani.

La realtà come appare agli occhi della scienza è la descrizione ipotetica della struttura del reale, a partire dall'estrapolazione delle conseguenze delle teorie. Questo perché il linguaggio della scienza è volto a favorire l'incontro fra gli osservatori, l'obbiettività delle loro descrizioni, l'impegno al controllo e all'eliminazione dell'errore sul piano operativo.

La realtà come appare agli occhi della scienza, è una descrizione in perenne rinnovamento. La scienza ci permette di attingere a una razionalizzazione obbiettiva del mondo oggettivo, che di per sé, come hai detto tu da un'altra parte nel forum, è in perenne fuga, nella sua concreta esistenza. L'universo della scienza è l'immagine di un essere autoconsistente e autonomo; tuttavia è anche un'immagine parziale, condizionata, ipotetica e permanentemente aperta.

Dall'altra parte, c'è l'esistente concreto, l'esserci dell'essere, e all'interno dell'esserci dell'essere, c'è il nostro esserci e il nostro incontro con le circostanze effettuali, uniche, irripetibili e imprevedibili che l'essere ci getta davanti.

L'esistente concreto è al di fuori della prevedibilità ipotetica della scienza. Esso accade, c'è, si mostra, per dirla con il Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus. Per quante risposte possa reperire la scienza, essa ci darà, dell'esistente concreto, un'immagine affidabile nei limiti che la scienza stessa si pone. Sul piano strettamente gnoseologico ed epistemologico non possiamo chiedere di più. Ciò che la scienza ci lascia intuire è la descrizione obbiettiva, ma parziale, dell'essere nella sua infinita ed eterna potenza creativa. Ma l'immagine che ce ne fornisce è per forza di cose ipotetica, tipologica, generalizzata, strumentale. La scienza pone, in generale, dei limiti precisi alla tipica del giudizio delle nostre visioni del mondo, dei nostri orientamenti, di ogni nostro blick metafisico.

D'altro canto, sul piano esistenziale, la realtà ci appare lacerata, conflittuale, segnata dalla deprivazione, dall'angoscia e dal dolore, che sono veri e propri sensi di un sensorio ontologico. Il dolore e la mancanza sono la percezione profonda del fatto che il nostro essere è concreto, è una presenza forte, e non è semplicemente un'ipotesi tecnicamente definita, che può benissimo convivere, depotenziata a pura operatività convenuta, con un retroscena nichilistico. All'altro polo del discorso, l'amore come dono si pone come un senso ancora più profondo del nostro sensorio esistenziale: è la percezione del fondamento, del fatto che il darsi dell'essere, non è solo un semplice dato, ma è un dono, che rimonta a un fondamento che può essere concepito come un Donatore personale, incondizionato, trascendente, che però non va visto secondo le idee, ancora sinistramente troppo antropomorfiche, delle religioni tradizionali. Il Dio delle religioni rivelate fa spesso degli uomini i suoi strumenti. Sovente, chi crede, si chiede quale progetto abbia Dio per lui; puntualmente questo cosiddetto progetto di Dio (ad esempio, una vocazione religiosa o l'impegno nel jihad), finisce per urtare contro questa o quella componente profonda del nostro essere (ad esempio, un progetto personale fondato sull'estrinsecazione sana della propria sessualità, ovvero la semplice pulsione alla propria conservazione fisica). La progettualità del donatore, si esaurisce nel dono dell'essere: nel dono di un essere strutturalmente autonomo (materialmente autopoietico e infinito, per ipotesi, ma che cosa c'è a monte del suo concreto apparire?), che di per sé non rivela il donatore. Il progetto di Dio per l'uomo si esaurisce nell'averlo creato libero, cosciente e creativo, all'interno di una realtà complessa, rischiosa, bella e terribile. Ciò che è dell'uomo, di fronte alla matrice originaria del dono dell'essere, è la possibilità di riconoscersi e accettarsi appunto come dono gratuito, e di agire di conseguenza, in una realtà conflittuale.

Nel mio lungo intervento (troppo lungo e questo rischia di eguagliarlo), si accennava anche al fatto che la conflittualità e il dolore sono strettamente connaturati al dono dell'essere. Il dono in quanto tale, è incondizionato (senza secondo fine, ma anche senza limite intrinseco); per essere qualcosa, il dono deve giungere all'esterno del donatore: c'è una totale imprevedibilità del dono, che è infinitamente plurale, e produce un'alterità sostanziale, rispetto al donatore. Ora, questa alterità sostanziale, per i singoli destinatari del dono, si manifesta, quanto meno, nel fatto che siano bisognosi di fondamento per essere concepiti come esistenti. Il dono dell'essere è necessariamente accompagnato da una deprivazione originaria. Nel momento in cui l'uomo riesce a superare, sul piano della creazione estetica o sul piano etico, la dimensione di negatività derivante da questa deprivazione esistenziale originaria, è come se attingesse a una dimensione esistenziale in tutto e per tutto analoga a quella di un assoluto che crea in limine l'essere dal nulla per libera scelta di donare l'essere stesso.

Insomma, io ho affrontato la tua domandina semplice semplice (perché esiste l'essere e non il nulla e perché ce lo chiediamo) su due piani paralleli e complementari:

1) dal punto di vista della scienza (ovvero, dal punto di vista della conoscenza come tale), il nulla non è operativamente postulabile, e la natura, governata nei suoi aspetti fondamentali dal principio di indeterminazione, si mostra con il volto di un multiverso (o metaverso) in perenne creazione. Noi, in quanto prodotto di una regione strutturata del metaverso, ci troviamo forzati dalla nostra stessa evoluzione (determinata dalle leggi fisiche) a costruire linguaggi strutturati capaci di descrivere ciò che vediamo, e a esplorare il mondo che ci circonda;

2) da un punto di vista esistenziale, oscillando fra il dolore (e l'angoscia) in quanto deprivazione, come percezione della presenza dura, conflittuale e rischiosa dell'essere, e l'amore in quanto dono, come percezione del fondamento dell'essere, siamo indirizzati a riconoscere la fonte dell'esistenza concreta della realtà, che percepiamo come sacra, in quanto cratofania primaria, in un assoluto inteso come fonte incondizionata del dono (del darsi) dell'essere. Ed è la stessa percezione dolorosa della presenza dell'essere connaturata paradossalmente con il dono dell'essere, a metterci sulle tracce di quell'assoluto e del nucleo del dono dell'essere.

E qui mi fermo, che è meglio.
 
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15 replies since 2/8/2006, 19:41   2793 views
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