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Perché c'è l'essere invece del nulla?, E perché ci poniamo questa domanda?

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view post Posted on 2/8/2006, 19:41
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Perché c'è l'essere invece del nulla?

E perché ci poniamo questa domanda?
 
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ninfodoro
view post Posted on 3/8/2006, 01:34




A Carmelo Bene, che da un angusto palchetto televisivo continuava a proclamare con enfasi e sdegno il proprio non-esistere, il critico Roberto D'Agostino domandò semplicemente: "Ma se non esisti, perché ti tingi i capelli?".
A volte è breve la verità.

 
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view post Posted on 3/8/2006, 01:43
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:blink: Ma il nulla non si tinge i capelli.

Certo, l'osservazione di D'Agostino a Bene era molto filosofica (come dire: «inutile indagare i livelli metaepistemologici se poi, umanamente, ricadiamo sull'immanente»); ma io volevo una risposta al problema base dell'universo (o che almeno si abitasse un po' la mia domanda)...

Ahimè, «Perché c'è l'essere invece del nulla?» è il primo topic del forum, e la prima risposta che riceve è off-topic! :cry:

 
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ninfodoro
view post Posted on 4/8/2006, 02:00




In ogni caso, farei notare che il plurale "ci" ("perché ci poniamo questa domanda?") è largamente sovrastimato, essendoti posto la domanda in beata solitudine.

 
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view post Posted on 4/8/2006, 02:04
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Uhm ehm... però è la domanda alla base di ogni filosofia!, quindi in teoria se la dovrebbero porre tutti (se è vero che, come direbbe Croce, ogni uomo è filosofo).

Edited by Hamlet da Hamelin - 5/8/2006, 05:04
 
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Outisemeuzontos
view post Posted on 12/9/2006, 11:04




Domanda: il tuo "perché" è un perché teleologico (a che scopo?) o un perché causale (per quale ragione)?
 
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view post Posted on 12/9/2006, 14:26
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Risposta: un perché causale. La questione teleologica vuol essere secondaria, qui, perlomeno in partenza.


Certo, a orecchiare le teorie di Fantappié (image), si potrebbe parlare di sintropia, e cioè dell'idea che gli eventi passati possano essere causati da eventi futuri; perciò, la causa dell'origine dell'universo sarebbe da ricercarsi nel Risultato finale di esso, «paradossalmente»; il quale Risultato, dall'Ultimo Futuro (l'Infinito? l'Infinito-o-quasi?), proietterebbe all'indietro nel tempo il proprio influsso: così come un'onda marina che, anziché venire dal mare a riva, vada da riva al mare. Se la teoria fantappiesca rispondesse al vero (ahimè, ma la questione della verità o falsità delle teorie è alquanto complicata: vedi image), dovrebbe cadere dal piano della nostra speculazione, forse, la distinzione tra causalità e teleologia. O no? forse l'aspetto teleologico è estrinseco all'evento (l'universo).


In ogni caso, non si trascuri, nella presente discussione, l'importanza del suo sottotitolo: «E perché ci poniamo questa domanda?».


image
Luigi Fantappié (1901-1956). Cliccare sulla foto
per accedere a un simpatico sito sintropista.


Edited by Hamlet da Hamelin - 23/9/2006, 04:04
 
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Outisemeuzontos
view post Posted on 13/9/2006, 12:47




Nel caso che il perché in questione sia un perché causale, anche considerando il tipo di causalità "teleologicamente contaminata" a cui allude Fantappié, e che oggi rientra in parte nella categoria dell'effetto di retroazione (feedback) o della causalità verso il basso, in parte nell'ambito della teleologia intrinseca all'evoluzione (che qualcuno, come Lee Smolin, estende dall'ambito biologico alla cosmologia), una risposta controllabile (anzi, una serie di risposte controllabili alternative) viene dalla scienza. In effetti, il nostro universo (che è parte dell'essere) esiste, in quanto è frutto di una fluttuazione statistica del nulla. Per la meccanica quantistica, il nulla assoluto, sul piano fisico, non può esistere. Affermare infatti che esiste il nulla, significa prospettare l'ipotesi dell'esistenza di un sistema fisico in cui tutte le grandezze, nella totalità del tempo, abbiano costantemente tutte insieme un valore determinato, che è pari a zero. Senonché, attribuire un valore determinato a tutte insieme le grandezze in gioco contemporaneamente, è contrario al principio di indeterminazione, che è un fattore costitutivo della realtà fisica a livelli fondamentali. In verità, nel vuoto si danno imprevedibili e casuali fluttuazioni statistiche; il nostro universo è verosimillmente frutto di una di queste fluttuazioni statistiche del nulla. L'altro aspetto della domanda metafisica fondamentale, perché l'essere (o la parte di essere che abbiamo sott'occhio, il nostro universo) è così come lo vediamo, è più spinosa. Il nostro universo strutturato è estremamente improbabile, frutto di un equilibrio calibrato di grandezze di base (carica dell'elettrone, raggio d'azione della forza nucleare forte etc.) estremamente fragile (basterebbe che la carica dell'elettrone fosse di un infinitesimo minore o maggiore di quella che è per mandare in pezzi gli atomi o farli collassare, così che stelle, pianeti e noi non esisteremmo). Per crearlo a caso, un universo come il nostro, in mezzo a una selva di universi casuali (quella che si chiama una soluzione al contorno caotica), dovrebbero esistere altri dieci alla duecentotrenta universi (un numero di universi pari a uno seguito da duecentotrenta zeri). In realtà, le fluttuazioni statistiche del nulla sono virtualmente infinite. Ciò implica che il nostro universo è solo uno degli infiniti universi che effettivamente sono nati. Per giunta, le diverse teorie cosmologiche concorrenti che spiegano l'origine dell'universo, prospettano uno scenario infinitamente più complesso della realtà. L'idea che la realtà sia, sul piano fisico, un multiverso caotico è ormai quasi un assunto acquisito dalla cosmologia. Al di là di questa idea di fondo, le diverse ipotesi definiscono scenari di vario tipo. Esaminiamone alcune.

La teoria dell'universo inflazionario, presuppone, al principio della vita del nostro cosmo, l'azione di un campo di forza, chiamato campo inflatonico (inflatone è l'ipotetica particella che lo contraddistingue), che ha la caratteristica di dilatare lo spazio a velocità superluminali (si badi, lo spazio: è lo spaziotempo che si curva e si gonfia, mentre gli oggetti restano in quiete e dunque il limite della velocità della luce non è violato). Dopo un certo tempo, il campo inflatonico cessa la sua azione e viene creato lo spaziotempo che noi conosciamo, con i parametri metrici che ci sono noti. Tuttavia, l'espansione originaria separa fra loro diverse "bolle" di spaziotempo, che non entreranno mai in contatto, e vivranno vita separata come universi del tutto indipendenti. Tale processo espansivo non si arresta mai, così che da ognuna delle singole infinite fluttuazioni del nulla originario si generano infiniti universi in un processo che il fisico russo Andrej Linde (il codificatore della forma estrema dell'espansione inflazionaria) chiama inflazione permanente. In poche parole, il nostro universo potrebbe, secondo la teoria di Linde, essere uno dei tanti derivati da una qualunque delle fluttuazioni statistiche che agitano il nulla (potrebbe essere un universo di seconda, terza, quarta, ennesima generazione). In uno scenario del genere, tutto ciò che è possibile, effettivamente avviene, anche se non per intrinseca necessità determinante (come nel vecchio paradigma meccanicistico), quanto piuttosto per estrinseca casualità, per la statistica dei grandi numeri (o meglio, degli infiniti).

Una particolare ipotesi (al limite della metafisica) è stata formulata da Richard Gott e Li Xin Li, i quali hanno pensato che in realtà il nulla originario statisticamente fluttuante sia una sorta di universo-madre, il cui tempo scorre circolarmente (la vita di questo universo è come quello di una viaggiatrice nel tempo che tornando nel passato partorisce se stessa). Gli universi come il nostro, caratterizzati da freccia del tempo lineare, sarebbero i figli di questo universo-madre (immaginiamo che la nostra viaggiatrice nel tempo, madre di se stessa, abbia nel frattempo, anche altri figli).

Teoricamente, nulla vieta di innestare la dinamica dell'inflazione permanente di Linde sull'idea dell'universo-madre, complicando ulteriormente il quadro dello spacetimescape (mi si passi il neoconio anglofono), del paesaggio cronotopico.

Un'idea ancora più interessante viene, sempre nell'ambito della teoria dell'inflazione, da Lee Smolin, che ho già nominato prima. Lee Smolin ha formulato la teoria dell'evoluzione cosmologica. Tale teoria si pone come uno sviluppo particolare dell'ipotesi della teoria dei molti universi formulata negli anni sessanta del ventesimo secolo da John Wheeler e da Hugh Everett. Secondo l'ipotesi Everett-Wheeler l'universo non fa che espandersi e ricontrarsi all'infinito, cominciando con la singolarità (un punto di sospensione della prevedibilità basata sulle leggi fische) di un big bang, e morendo con la singolarita di un big crunch (grande contrazione), per poi rinascere a mo' di fenice. A ogni singolarità tutte le leggi fisiche e tutti i parametri che definiscono l'ordine cosmico (il software dell'universo) vengono riprocessati, come in una sorta di gigantesca formattazione. Smolin assume l'idea dell'universo fenice con un correttivo: che ad ogni riprocessamento, corrispondente a una singolarità, i parametri e le leggi fisiche cambino casualmente, di poco. Una grande maggioranza di universi collasserà dopo un tempo infinitesimo, rinascendo e riprocessandosi, a partire da una sola singolarità. A ogni rinascità, l'universo si ristruttura, finché, per puro caso, assume parametri tali da provocare un'espansione, la nascita di nubi di aggregazione, quasar, galassie, stelle, pianeti. La morte delle stelle, specie di quelle più massicce, e l'addensamento di materia nei nuclei galattici, produce nuove singolarità, i buchi neri, che a loro volta, in base alla teoria di Smolin, producono nuovi universi, molto simili al nostro. Ora, in un universo come il nostro esistono cento miliardi di galassie, con un buco nero centrale, e in ognuna di queste galassie si ammassano fra i dieci e i trecento miliardi di stelle, di cui una minima percentuale (intorno al dieci per cento) di stelle supermassicce dà luogo a un buco nero e a una singolarità. Il risultato è che il nostro universo, altamente improbabile in linea teorica, dà luogo a centinaia di miliardi di universi figli simili al nostro (con galassie stelle pianeti), mentre l'universo senza atomi, galassie e stelle, in linea di principio altamente probabile, dà luogo a uno e un solo universo figlio. Alla fine, parafrasando Einstein, si può dire che non solo Dio gioca a dadi, ma gioca anche con dadi truccati, visto che l'universo meno probabile è anche quello che dà luogo al maggior numero di copie di se stesso. In questo strano scenario dell'evoluzione cosmica, perfino la presenza di esseri intelligenti sembra giocare un ruolo fondamentale, secondo certi scenari estremi tracciati dall'originale scienziato americano Paul Davies. Paul Davies assume i risultati di uno degli esperimenti mentali di un altro scienziato, che se non erro era Fred Hoyle, il quale immaginava un metodo per estrarre energia dai buchi neri, da un'area dello spazio vicino ai buchi neri che, per il suo forte momento angolare e per la forte energia cinetica che imprime alle particelle che vi arrivano e riescono a non cadere nel baratro, si chiama ergosfera (=sfera dell'energia). Teoricamente, per un'ipotetica civiltà interstellare, l'ergosfera dei buchi neri è la fonte di energia naturale più a buon mercato. Paul Davies, in un altro curioso esperimento mentale, immagina che degli esseri intelligenti, per sopravvivere in un cosmo in declino termodinamico, accelerino artificialmente la formazione dei buchi neri, per avere sufficiente energia. Accogliendo i risultati dell'esperimento mentale, Smolin ipotizza società interstellari che accelerando artificialmente il crearsi di buchi neri, intervengano ad accelerare il processo di formazione degli universi figli. L'implicazione di questa idea, è che il nostro universo potrebbe, in linea teorica, non essere il frutto di un processo naturale; esso si configurerebbe come il sottoprodotto casuale di una disperata corsa alla cattura dell'energia, da parte di intelligenze abitanti in un universo morente.

Un altro modo di vedere le cose, viene da una classe di teorie ancora più eterodosse, che si basano sull'idea, formulata dal fisico di origine portoghese Joao Maugeijo, che la velocità della luce non sia costante, ma varii nel tempo a determinate condizioni. Le teorie della velocità della luce variabile prevedono anch'esse scenarii di cosmogenesi infinita alquanto variegati; determinate osservazioni condotte dagli astronomi sulla variazione, per lo spettro luminoso di stelle lontane, di una grandezza che si chiama costante di struttura fine (e che dipende dalla velocità della luce), fanno pensare che forse l'idea di una velocità della luce variabile colga un aspetto vero della struttura del cosmo.

Qualunque sia il punto di vista che si abbraccia, e si potrebbe occupare molto spazio ad enumerare tutte le teorie in concorrenza, quelle superate dai fatti e quelle oggi in auge, resta fisso l'assunto di fondo che: 1) il nostro universo non è unico; 2) che esso deriva, verosimilmente, da processi quantistici di fluttuazione del nulla; 3) che, verosimilmente, la creazione di nuovi universi è costantentemente in atto per tutta l'eternità. Che la realtà sia poi oggetto di interrogativo, e che in qualche modo sia trasparente e suscettibile di interpretazione, è facilmente spiegato, sul piano fisico, dal cosiddetto principio antropico: quella che vediamo è la realtà strutturata che ha permesso la nostra evoluzione, che ci ha determinati a contare sulle dita e a esplorare il territorio per sopravvivere, finché tale istintualità sublimata non ci ha condotti a indagarne le ragioni e le strutture profonde.

Senonché, quelle di cui abbiamo parlato finora, sono teorie scientifiche. Ora, le teorie scientifiche rispondono a determinati parametri di controllabilità, e descrivono la realtà in linea ipotetica (tipicamente, una linea ragionativa e operativa propria della scienza è: date tali condizioni, la teoria prevede che accada una certa cosa). Ovviamente circa l'effettiva esistenza concreta di alcunché, circa l'effettivo accadere di un evento, circa l'aspetto ontologicamente duro del problema, la scienza non può fare alcuna previsione: può soltanto fornire spiegazioni operativamente più o meno efficaci (aspetto tecnico della scienza) e indicare un orientamento cognitivo di carattere critico, basato sulla ricerca dell'errore, sullo stabilire convenzioni terminologiche e di controllo, e sulla discussione delle controargomentazioni e dei linguaggi alternativi (comandi metodologici della falsificazione, della convenzione e della tolleranza, che poi sono l'aspetto filosoficamente "alto" della scienza).

Finora ho trafficato con teorie che mi dicono: può esistere qualcosa, e non il nulla, e se questo qualcosa esiste, può esistere in questo modo. Il problema che va affrontato, e riformulato, è piuttosto il senso dell'essere effettivo dell'essere e del mio esserci nelle circostanze che l'essere mi pone concretamente davanti. Ovviamente, a questo la scienza non risponde, non perché non possa attingere alle profondità delle cose nella loro struttura costitutiva, ma perché vi attinge secondo una prospettiva e un linguaggio che volutamente eludono la dimensione esistenziale e concreta del problema ontologico, soffermandosi semmai sulla dimensione ipotetica di un ontologia formale. L'universo ipotetico della prospettiva della conoscenza scientifica appare, per scelta degli osservatori: 1) come universo strumentalizzato (ridotto a possibilità di interazione tecnica con l'osservatore); 2) come universo generalizzato (ridotto a costruzione statistica e tipologica, indifferente alle circostanze esistenziali del singolo).

Ciò non vuol dire che la scienza sia uno strumento cognitivo inferiore, rispetto a una fantomatica filosofia prima o scienza dello spirito etc. etc. secondo pregiudizi che possono essere ricondotti a varie scuole di pensiero, dall'aristotelismo deteriore all'idealismo, che di principio condanna la scienza.
Semplicemente, la scienza, per sua disposizione strutturale, non si pone il problema di spiegare l'imponderabile accadere dell'effettualità delle singole esistenze ed esperienze. Ciò non vuol dire che si possa affermare tout court che la scienza non abbia implicazione sulla nostra visione del mondo e sul nostro modo di concepire l'esistenza. Qualunque ragionamento filosofico voglia affrontare il problema del perché dell'esserci di ogni singolo esistente nelle circostanze che l'essere effettivamente gli pone, non può prescindere dall'idea che gli esistenti in questione, noi, siamo esseri fisici biologicamente determinati, evolutivamente strutturati nel corso delle ère, su un pianeta di un sistema solare periferico di una normale galassia di un mini-ammasso locale all'interno di uno dei tanti cosmi di un infinito multiverso caotico.

Il problema essenziale, resta però, nella sua natura, estraneo all'essere (=totalità, universo-storia) strumentalizzato e generalizzato della scienza, che ci fornisce solo un pacchetto funzionale di definiti orientamenti e di indicazioni.

Il punto essenziale è il fatto che il mondo, l'essere, l'universo, c'è, si mostra, sia pur in modo plurivoco e problematico (non è un problema nemmeno che esso sia trasparente al linguaggio e alla conoscenza, questo in qualche modo viene da sé). Per dirla con il Mircea Eliade del trattato della storia delle religioni, l'esistere effettivo del mondo è una cratofania (=espressione manifesta di una potenza che trascende l'osservatore), potremmo dire la cratofania primaria e ultimativa. Sempre seguendo Mircea Eliade, alla cratofania si accompagna una ierofania (=manifestazione del sacro), tanto che il sacro (non inteso nel senso deteriore delle tradizioni degenerate in superstizioni, né ridotto alle posizioni delle rivelazioni storiche degenerate in dogma, fanatismo e repressione gerarchica), si rivela, depurato delle sue contaminazioni storiche, e ridotto a categoria formale, come l'unica categoria utilizzabile per approcciare il problema dell'esserci effettivo dell'essere, e del nostro effettivo esserci. Mentre il problema dell'essere in quanto res, in quanto sostrato cosale e ontico (= in quanto dura materia, hardware dell'esistenza), è risolvibile facilmente, demandando alla scienza il compito, altro è il problema dell'orientamento e della motivazione esistenziale, a cui la domanda ontologica fondamentale si deve ridurre, e che è decifrabile sotto la categoria del sacro.

Altri spunti, altrettanto illuminanti, vengono da pensatori contemporanei, come Giorgio Santayana e Eric Fromm.

In teoria, il problema ontologico, inteso come problema dell'orientamento esistenziale e della presenza dell'esistente come tale, potrebbe essere ignorato; o lo si potrebbe dare per risolto con una risposta nichilistica: una risposta di comodo, che riduce la conoscenza a interpretazione e a routine tecnica, all'interno di un indecidibile esistenza, frutto di un essere poroso e depotenziato, in circostanze nelle quali tanto vale lasciare che il plurivoco corso del mondo si avvii alla sua deriva destinale (vedi il pensiero debole di Vattimo & c.) assumendo un atteggiamento di ironia affettuosa verso visioni stigmatizzate come olistiche e consolandoci col fatto che siamo nati nelle società liberaldemocratiche occidentali, le migliori della storia (vedi il liberalismo ironico alla Rorty & c.).

In pratica, resta, sul piano della fenomenologia del reale, il problema della sostanziale deprivazione esistenziale che ognuno avverte, sotto forma di istintualità insoddisfatta, di inappagamento etc.: quel complesso di sensazioni deprivanti che costituiscono il fondamento di quella "fede animale" -di cui parla Santayana- circa la ontologicamente dura, e tutt'altro che porosa o esorcizzabile, presenza del reale e delle sue lacerazioni. Il dolore e la mancanza si pongono come veri e propri strumenti della percezione dell'esistenza concreta hic et nunc degli esistenti, come presenza altra e potenzialmente conflittuale. Si potrebbe definire il dolore come percezione della presenza (dell'essere)

Esiste poi un'altro aspetto della dimensione esistenziale, che è dato dal concetto di amore per come viene definito da Fromm, sulla base del bimillenario filone della tradizione giudaico-cristiana occidentale nel suo aspetto di rottura e di rivoluzione, incrociato con le acquisizioni della psicologia del profondo e calato nella dimensione di dialettica negativa propria di certi orientamenti hegelo-marxisti, attorno a cui Fromm in qualche modo si satellizza. L'amore fondato sul concetto di dono e per-dono (la relazione socioaffettiva definita dalla psicologia transazionale in base alla formula "io OK, tu OK). In effetti, l'amore come dono, si configura in sé e per sé come dono di essere, e lo si potrebbe definire, pertanto, come percezione(-attuazione) del fondamento (dell'essere). Soffermiamoci un momento ad analizzare il concetto del dono, del dari (alla latina: essere dato e darsi) dell'essere. Il dono, in quanto dono, presuppone un donatore e un donatario; presuppone inoltre l'alterità sostanziale del donatore rispetto al donatario. Il dono inteso in senso assoluto, implica, inoltre, nel donatore e da parte del donatore: 1) il non essere condizionato negli scopi (il dono è libero e non ha secondi fini); 2) l'essere dono di un che di positivamente concreto e reale (il dono è, ovviamente, dono di qualcosa, non di nulla o di apparenza); 3) il non essere condizionante (il donatario può rifiutare il dono); 4) l'essere gratuito e non richiesto (il donatario potrebbe idealmente aspettarsi un dono, ma la natura del dono, non essendo vincolante, lo rende imprevedibile e non richiesto); 5) last but not least, la progettualità del donatore (che però, ben inteso, si esaurisce nell'atto del dono, né vuole fare del donatario uno strumento). Tradotto in termini di darsi di essere e di dono di essere, il nucleo dell'essere è un fondamento 1) dotato di progettualità (quindi di una componente personale); 2) incondizionato (dunque libero e senza limitazioni strutturali a donare); 3) non condizionante (non ci fa strumento di fini più o meno metastorici). Ovviamente, il donatario, in quanto, nel caso specifico, fondato e altro dal donatore, per quanto sia ontologicamente autonomo, sarà però, plurivoco, condizionato, conflittuale. L'esistere frutto del dono ci vede liberi davanti al dono stesso, che come tale è gratuito e può essere accettato o rifiutato (il che ci può esaltare o nauseare, a seconda della quantità di serotonina che abbiamo nel cervello). Riassumendo ulteriormente, sul piano dell'orientamento e della motivazione esistenziale, l'esserci dell'essere e il nostro effettivo esserci va inteso, come per certa filosofia femminista americana, come un verbo, come un dari, un darsi, un essere dono e dato (di partenza), una posizione e positività logico-ontologica. Come tale esso suscita interrogativi, sul perché teleologico (il cosiddetto problema del senso oggettivo della vita) ancor prima del perché causale. In effetti, di fronte al darsi dell'essere come dono, il problema del senso dell'esistere (senso in quanto per-quale-ragione-e-scopo), si esaurisce da solo, perché non si pone altro problema della motivazione esistenziale individuale e dell'orientamento che vogliamo assumere al suo cospetto, considerando che, in quanto dono, non siamo strumento di nessuno.

Relativamente ad altre questioni spinose, che questo nucleo dell'essere, che è il darsi di un fondamento personale incondizionato che l'uomo percepisce nella dimensione del sacro (storicamente contaminata e plurivoca), sia in conflitto con la totale autoconsistenza ontologica della realtà fisica, o con l'evoluzione delle strutture del cosmo, delle galassie, dei pianeti, degli esseri viventi, nasce da un equivoco. In effetti, l'essere, al cospetto del suo fondamento, in quanto dono, è strutturalmente autonomo, al punto che la sua derivazione in limine dal fondamento appare intematizzabile; in quanto l'essere è strutturalmente autonomo, non è dato una volta per tutte, ma viene costruendosi ed evolvendo juxta propria principia per estrinsecazione della sua propria natura, come un bambino che impara da solo a camminare.

O così almeno penso che si possa argomentare.

Ma ora la smetto, che ho debordato di parecchio.

Edited by Outisemeuzontos - 13/9/2006, 15:06
 
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view post Posted on 13/9/2006, 21:22
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CITAZIONE (Outisemeuzontos @ 13/9/2006, 13:47)
l'essere è strutturalmente autonomo, non è dato una volta per tutte, ma viene costruendosi ed evolvendo juxta propria principia per estrinsecazione della sua propria natura, come un bambino che impara da solo a camminare.

In una parola: autopoiesi!

Ah! che soddisfazione leggere interventi così ricchi; altro che flood: food. Per il momento mi limito a ringraziare, poi elaborerò il mio continuo.

(Pregnante endecasillabo da usare, «fluttuazioni quantistiche del nulla»...)

Magari inoltre, se m'autorizzi, penetro nell'html del tuo messaggio di poc'anzi e ci inserisco qualche link a pagine in cui si trattano e s'illustrano gli argomenti toccati.
 
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Outisemeuzontos
view post Posted on 13/9/2006, 22:33




Inserisci pure il link (avrei voluto farlo io ma non mi riusciva).

Però vorrei precisare che il discorso verteva su diversi piani.

La realtà come appare agli occhi della scienza è la descrizione ipotetica della struttura del reale, a partire dall'estrapolazione delle conseguenze delle teorie. Questo perché il linguaggio della scienza è volto a favorire l'incontro fra gli osservatori, l'obbiettività delle loro descrizioni, l'impegno al controllo e all'eliminazione dell'errore sul piano operativo.

La realtà come appare agli occhi della scienza, è una descrizione in perenne rinnovamento. La scienza ci permette di attingere a una razionalizzazione obbiettiva del mondo oggettivo, che di per sé, come hai detto tu da un'altra parte nel forum, è in perenne fuga, nella sua concreta esistenza. L'universo della scienza è l'immagine di un essere autoconsistente e autonomo; tuttavia è anche un'immagine parziale, condizionata, ipotetica e permanentemente aperta.

Dall'altra parte, c'è l'esistente concreto, l'esserci dell'essere, e all'interno dell'esserci dell'essere, c'è il nostro esserci e il nostro incontro con le circostanze effettuali, uniche, irripetibili e imprevedibili che l'essere ci getta davanti.

L'esistente concreto è al di fuori della prevedibilità ipotetica della scienza. Esso accade, c'è, si mostra, per dirla con il Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus. Per quante risposte possa reperire la scienza, essa ci darà, dell'esistente concreto, un'immagine affidabile nei limiti che la scienza stessa si pone. Sul piano strettamente gnoseologico ed epistemologico non possiamo chiedere di più. Ciò che la scienza ci lascia intuire è la descrizione obbiettiva, ma parziale, dell'essere nella sua infinita ed eterna potenza creativa. Ma l'immagine che ce ne fornisce è per forza di cose ipotetica, tipologica, generalizzata, strumentale. La scienza pone, in generale, dei limiti precisi alla tipica del giudizio delle nostre visioni del mondo, dei nostri orientamenti, di ogni nostro blick metafisico.

D'altro canto, sul piano esistenziale, la realtà ci appare lacerata, conflittuale, segnata dalla deprivazione, dall'angoscia e dal dolore, che sono veri e propri sensi di un sensorio ontologico. Il dolore e la mancanza sono la percezione profonda del fatto che il nostro essere è concreto, è una presenza forte, e non è semplicemente un'ipotesi tecnicamente definita, che può benissimo convivere, depotenziata a pura operatività convenuta, con un retroscena nichilistico. All'altro polo del discorso, l'amore come dono si pone come un senso ancora più profondo del nostro sensorio esistenziale: è la percezione del fondamento, del fatto che il darsi dell'essere, non è solo un semplice dato, ma è un dono, che rimonta a un fondamento che può essere concepito come un Donatore personale, incondizionato, trascendente, che però non va visto secondo le idee, ancora sinistramente troppo antropomorfiche, delle religioni tradizionali. Il Dio delle religioni rivelate fa spesso degli uomini i suoi strumenti. Sovente, chi crede, si chiede quale progetto abbia Dio per lui; puntualmente questo cosiddetto progetto di Dio (ad esempio, una vocazione religiosa o l'impegno nel jihad), finisce per urtare contro questa o quella componente profonda del nostro essere (ad esempio, un progetto personale fondato sull'estrinsecazione sana della propria sessualità, ovvero la semplice pulsione alla propria conservazione fisica). La progettualità del donatore, si esaurisce nel dono dell'essere: nel dono di un essere strutturalmente autonomo (materialmente autopoietico e infinito, per ipotesi, ma che cosa c'è a monte del suo concreto apparire?), che di per sé non rivela il donatore. Il progetto di Dio per l'uomo si esaurisce nell'averlo creato libero, cosciente e creativo, all'interno di una realtà complessa, rischiosa, bella e terribile. Ciò che è dell'uomo, di fronte alla matrice originaria del dono dell'essere, è la possibilità di riconoscersi e accettarsi appunto come dono gratuito, e di agire di conseguenza, in una realtà conflittuale.

Nel mio lungo intervento (troppo lungo e questo rischia di eguagliarlo), si accennava anche al fatto che la conflittualità e il dolore sono strettamente connaturati al dono dell'essere. Il dono in quanto tale, è incondizionato (senza secondo fine, ma anche senza limite intrinseco); per essere qualcosa, il dono deve giungere all'esterno del donatore: c'è una totale imprevedibilità del dono, che è infinitamente plurale, e produce un'alterità sostanziale, rispetto al donatore. Ora, questa alterità sostanziale, per i singoli destinatari del dono, si manifesta, quanto meno, nel fatto che siano bisognosi di fondamento per essere concepiti come esistenti. Il dono dell'essere è necessariamente accompagnato da una deprivazione originaria. Nel momento in cui l'uomo riesce a superare, sul piano della creazione estetica o sul piano etico, la dimensione di negatività derivante da questa deprivazione esistenziale originaria, è come se attingesse a una dimensione esistenziale in tutto e per tutto analoga a quella di un assoluto che crea in limine l'essere dal nulla per libera scelta di donare l'essere stesso.

Insomma, io ho affrontato la tua domandina semplice semplice (perché esiste l'essere e non il nulla e perché ce lo chiediamo) su due piani paralleli e complementari:

1) dal punto di vista della scienza (ovvero, dal punto di vista della conoscenza come tale), il nulla non è operativamente postulabile, e la natura, governata nei suoi aspetti fondamentali dal principio di indeterminazione, si mostra con il volto di un multiverso (o metaverso) in perenne creazione. Noi, in quanto prodotto di una regione strutturata del metaverso, ci troviamo forzati dalla nostra stessa evoluzione (determinata dalle leggi fisiche) a costruire linguaggi strutturati capaci di descrivere ciò che vediamo, e a esplorare il mondo che ci circonda;

2) da un punto di vista esistenziale, oscillando fra il dolore (e l'angoscia) in quanto deprivazione, come percezione della presenza dura, conflittuale e rischiosa dell'essere, e l'amore in quanto dono, come percezione del fondamento dell'essere, siamo indirizzati a riconoscere la fonte dell'esistenza concreta della realtà, che percepiamo come sacra, in quanto cratofania primaria, in un assoluto inteso come fonte incondizionata del dono (del darsi) dell'essere. Ed è la stessa percezione dolorosa della presenza dell'essere connaturata paradossalmente con il dono dell'essere, a metterci sulle tracce di quell'assoluto e del nucleo del dono dell'essere.

E qui mi fermo, che è meglio.
 
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annodato
view post Posted on 20/9/2006, 14:28




Alcune risposte al volo:

CITAZIONE
l'essere non può fare a meno del nulla e viceversa
Per definirsi, giusto?

Diciamo che la cosa può essere un po' più complicata: definendo si pongono dei limiti e quindi si divide (si taglia fuori l'altro da sé). Con coraggio posso immaginarmi la definizione come un dividere due che si amano moltissimo. Mi pare logico che:
1) continuano ad attrarsi anche dopo la definizione e tendono ad unirsi di nuovo;
2) in ognuno di loro c'è qualcosa dell'altro (la fotografia nel portafoglio magari).

CITAZIONE
Quella che auspico da tempo è una episteme in cui si fondano mirabilmente queste 4 forme, così come gli scienziati cercano di fondere le 4 forze dell'universo in un'unica visione.

Attento, giochi troppo con l'essere (il pieno) e lasci fuori il nulla (il vuoto), non puoi scaricare qualcuno che ti ama ancora moltissimo senza pagarne le conseguenze!

CITAZIONE
auspico una «razionalità» più estesa, che comprenda in sé l'«irrazionalità» (aprirò una discussione a parte su questo tema). Dopotutto, tanto per dirne una, è una spinta «irrazionale» quella che ci spinge a essere «razionali» (provate a pensarci).

La stessa questione tra essere e nulla si ripropone tra razionale e irrazionale. Attenzione all'ingenuità: l'irrazionale non ha bisogno di te per essere compreso nella razionalità (non ha bisogno di essere amato per amare). In sintesi: non c'è una razionalità più estesa della razionalità che c'è.

CITAZIONE
E questo primo gioco lo vince il nulla
Nel senso che nel mondo prepondera la vanvera?

No, assolutamente no, il nulla e l'essere giocano nella stessa squadra, se vince l'uno vince anche l'altro!
 
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view post Posted on 20/9/2006, 15:44
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CITAZIONE (annodato @ 20/9/2006, 15:28)
in ognuno di loro c'è qualcosa dell'altro

Mmm, se nell'essere c'è qualcosa del nulla, questo qualcosa che cosa può mai essere?
E che cosa sarebbe quel qualcosa dell'essere che possiamo trovare nel nulla?

CITAZIONE
lasci fuori il nulla (il vuoto)

Come si può dunque infilare il nulla in una episteme?

CITAZIONE
non c'è una razionalità più estesa della razionalità che c'è.

Ma, voglio dire, se anziché considerare solo il principio causa/effetto, nella razionalità ficcassimo anche altre cose? che ne so, il sincronismo junghiano (o è roba vecchia?) ecc.

CITAZIONE
il nulla e l'essere giocano nella stessa squadra, se vince l'uno vince anche l'altro!

Forse sarebbe il caso di definire meglio, qui (anche se le definizioni ecc. ecc.), cosa intendi per essere e nulla, sennò m'è troppo gnomica 'sta cosa!, ehm.


P.S.: :woot: oddio!!! devo ancora rispondere al mega-intervento di Outisemeuzontos...

Edited by Hamlet da Hamelin - 20/9/2006, 18:05
 
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Outisemeuzontos
view post Posted on 20/9/2006, 20:45




[Glossa del moderatore: aggiungo alcuni link per i meno esperti, cioè cliccando sulle parole sottolineate si apriranno delle pagine di spiegazione. E dove trovate un asterisco, è da intendere: «Attenzione, non cliccate sulla parola indietro e non spostatevi in altre pagine del sito www·filosofico·net che non sia quella qui linkata!, o potreste incontrare un virus exe·exe».]


In effetti la definizione di essere in filosofia è articolata, nella storia.

L'essere di Parmenide e di Melisso di Samo (integralmente ripreso oggi da Emanuele Severino) va inteso come la norma logico-ontologica autoconsistente e non contraddittoria, al di sotto delle manifestazioni contraddittorie che si offrono ai sensi. Queste ultime sono oggetto di una congettura ragionata plausibile, che usa la norma logico-ontologica della non contraddittorietà dell'essere come criterio regolativo (una concezione che viene ripresa dalla filosofia della scienza di Popper: la scienza come doxa -congettura- plausibile, da riaggiustare in base all'ideale regolativo di verità e al confronto coi fatti).

Da qui vengono fuori i percorsi aperti del filosofare platonico, che introduce il concetto di non-essere come alterità, accanto al non-essere come nulla; donde poi la gerarchia ontologica fra l'essere formale e normativo dell'idea, (di cui si dà scienza coerente) distinto, eterno e trascendente rispetto al mondo sensorialmente esperibile, contraddittorio e perituro (plasmato dalla divinità contemplatrice dell'idea), che non è l'idea, e che è un meno di essere rispetto all'idea stessa; del mondo sensorialmente esperibile non si dà scienza coerente, ma solo un ragionare plausibile da rivedere costantemente (ancora una volta il percorso che va da platone alla scepsi [scetticismo], finendo per toccare la tarda scolastica e ponendo le basi della rivoluzione scientifica). Sempre dal filone del platonismo, in epoca tardo-antica, si sviluppa poi l'idea di un non-essere che è un più-che-essere, il superessere del nulla. Quindi la gerarchizzazione dell'essere presente in Platone si complica, nel sistema di Ammonio Sacca*, Plotino e Porfirio. Il non essere (che è superessere) dell'Uno, emana l'essere dell'Intelletto, con i suoi archetipi ideali, da cui emana, dopo contemplazione dell'incontraddittorietà dell'uno, l'anima universale, da cui emana, dopo contemplazione della molteplicità di archetipi perfetti dell'intelletto, il mondo, come ultimo gradino (il più infelice) dell'essere (il meno-di-essere, il quasi-nulla), nel quale l'anima universale si frammenta e si articola nel tempo.

In Aristotele l'essere e il non essere come alterità si arricchiscono del concetto di essenza e di sostanza, cioè dei concetti logico-ontologici di sostrato-soggetto, e di struttura-definizione. Per non parlare della distinzione fra effettiva esistenza concreta e astratto essere logicamente incontraddittorio.

Tutto questo in una lingua in cui il verbo einai, essere, alla terza persona singolare può assumere una forma con accento forte, èsti, che significa contemporaneamente: è, esiste, è vero, è possibile, è necessario... (una lingua di cui fra l'altro è calco il partenopeo: ma non esiste proprio...).

[Aggiungo un link a un articolo di sintesi su La dottrina dell'Essere da Parmenide ad Aristotele.]

L'età medievale e rinascimentale, e così anche il razionalismo e l'empirismo moderni, non fanno altro che riprendere questa base speculativa, arricchendola di sfumature, facendovi irrompere l'innovazione della concezione giudaico-cristiana. Il dio giudaico-cristiano si pone come l'Essere (Ego sum qui sum... antequam Abraham, Moyses... fuissent, Ego sum) per eccellenza. Il mondo viene fatto emergere in limine [= «sulla soglia»] dal nulla, e rispetto all'Essere, è un derivato non necessario, frutto di libertà creativa. Il rapporto fra Essere ed esistente (ciò che ex-sistit, che ha una sua stabilità in virtù d'altro) diviene nella sostanza intematizzabile, se non attraverso una sorta di analogia entis, che si limita a dire che gli esistenti partecipano predicativamente (sono logicamente ascrivibili a una serie di categorie), che appartengono all'Essere quidditativamente (che sono l'Essere stesso: vedi la bontà, l'unità strutturale, la verità).

Il rapporto problematico fra essere dell'Essere (o del fondamento) ed essere degli esistenti viene ulteriormente scavato da filosofi successivi. L'età moderna sposta il problema filosofico su una dimensione soggettiva: la rivoluzione cominciata con Cartesio e finita con Kant sembra mettere in sordina il concetto di essere, nei suoi momenti di frattura. Le sistemazioni successive a questi momenti di frattura, le grandi costruzioni metafisiche di Leibniz e Spinoza dopo Cartesio, e ancor più l'idealismo dopo Kant, ridefiniscono la questione. La terna dialettica che apre il farsi del logos hegeliano (essere-non essere-divenire) sposta l'accento sulla strutturalità del divenire, essendo l'essere, sul piano logico-ontologico, una tesi rigida e remota dalla ricchezza finale del concreto nel suo pieno sviluppo.

Infine, le grandi ontologie novecentesche dei fenomenologi come Nicolai Hartmann, che si pone il compito di riarticolare le categorie dell'ontologia tradizionale in una nuova sintesi; e da ultimo, una serie di esperienze filosofiche ancora più sorprendenti l'ontologia esistenzialista di Heidegger, che parte dalla tematizzazione della ricerca del senso dell'essere, mediante l'interrogare l'esserci dell'uomo e la sua angoscia esistenziale, per approdare a un'idea dell'esistenza in cui l'esserci è totalmente determinato dalle circostanze dell'essere, che poi è lasciato ai suoi erramenti, alla sua erranza sostanziale.

E tutto sembra apparentemente concludersi con l'essere depotenziato, poroso e abbandonato alla sua deriva destinale, che è alla base del pensiero debole, che incrocia l'erranza dell'ultimo Heidegger con il nichilismo irrazionalistico di Nietzsche.

Per quanto, a me il pensiero debole e il suo essere depotenziato non garbino molto. Bisogna tenere sempre per assodato che le strutture semiologiche del linguaggio e l'orientazione nel mondo evolutivamente determinata dell'uomo sono imperniate sull'idea di una presenza forte, ancorché lacerata, dell'essere.

Edited by Hamlet da Hamelin - 27/9/2006, 06:05
 
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view post Posted on 20/9/2006, 23:13
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CITAZIONE (Outisemeuzontos @ 13/9/2006, 13:47)
un'indecidibile esistenza, frutto di un essere poroso e depotenziato

CITAZIONE (Outisemeuzontos @ 20/9/2006, 21:45)
E tutto sembra apparentemente concludersi con l'essere depotenziato, poroso

image
Poriferi.



Coincidenza graziosa! la scorsa mattinata, a pag. 12 di Stephen Jay Gould, Il millennio che non c'è, Il Saggiatore, 1999, leggevo:

«una classificazione fittizia tra le scienze, con la fisica adamantina al vertice e alla base discipline "paludose" come le stessa paleontologia, di cui io mi occupo; per non parlare di psicologia e sociologia, decisamente "porose"».

Per ora mi fermo qui perché ho la febbre a 38° e mezzo.

Edited by Hamlet da Hamelin - 22/9/2006, 00:48
 
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view post Posted on 21/9/2006, 12:57
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CITAZIONE (Outisemeuzontos @ 20/9/2006, 21:45)
Il dio giudaico-cristiano si pone come l'Essere (Ego sum qui sum [...]) per eccellenza.

image
L'Esodo con traduzione interlineare.



Scopro ora, in una pagina web di cultura ebraica (image), che la celebre risposta di Dio a Mosè (Esodo 3, 14) fu sempre mal tradotta in italiano; infatti «Eiè asher Eiè» non significa «Io sono Colui che sono». Tra le interpretazioni possibili, piuttosto, è «Io sono Colui che fa essere».

Qui un articolo su varie interpretazioni del passo: image

Ah: simpatico che i numeri di capitolo e versetto del passo in cui Dio dichiara il proprio nome, per caso, richiamino il valore di pi greco...

Edited by Hamlet da Hamelin - 22/9/2006, 00:24
 
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15 replies since 2/8/2006, 19:41   2793 views
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