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Perché c'è l'essere invece del nulla?, E perché ci poniamo questa domanda?

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Outisemeuzontos
view post Posted on 13/9/2006, 12:47 by: Outisemeuzontos




Nel caso che il perché in questione sia un perché causale, anche considerando il tipo di causalità "teleologicamente contaminata" a cui allude Fantappié, e che oggi rientra in parte nella categoria dell'effetto di retroazione (feedback) o della causalità verso il basso, in parte nell'ambito della teleologia intrinseca all'evoluzione (che qualcuno, come Lee Smolin, estende dall'ambito biologico alla cosmologia), una risposta controllabile (anzi, una serie di risposte controllabili alternative) viene dalla scienza. In effetti, il nostro universo (che è parte dell'essere) esiste, in quanto è frutto di una fluttuazione statistica del nulla. Per la meccanica quantistica, il nulla assoluto, sul piano fisico, non può esistere. Affermare infatti che esiste il nulla, significa prospettare l'ipotesi dell'esistenza di un sistema fisico in cui tutte le grandezze, nella totalità del tempo, abbiano costantemente tutte insieme un valore determinato, che è pari a zero. Senonché, attribuire un valore determinato a tutte insieme le grandezze in gioco contemporaneamente, è contrario al principio di indeterminazione, che è un fattore costitutivo della realtà fisica a livelli fondamentali. In verità, nel vuoto si danno imprevedibili e casuali fluttuazioni statistiche; il nostro universo è verosimillmente frutto di una di queste fluttuazioni statistiche del nulla. L'altro aspetto della domanda metafisica fondamentale, perché l'essere (o la parte di essere che abbiamo sott'occhio, il nostro universo) è così come lo vediamo, è più spinosa. Il nostro universo strutturato è estremamente improbabile, frutto di un equilibrio calibrato di grandezze di base (carica dell'elettrone, raggio d'azione della forza nucleare forte etc.) estremamente fragile (basterebbe che la carica dell'elettrone fosse di un infinitesimo minore o maggiore di quella che è per mandare in pezzi gli atomi o farli collassare, così che stelle, pianeti e noi non esisteremmo). Per crearlo a caso, un universo come il nostro, in mezzo a una selva di universi casuali (quella che si chiama una soluzione al contorno caotica), dovrebbero esistere altri dieci alla duecentotrenta universi (un numero di universi pari a uno seguito da duecentotrenta zeri). In realtà, le fluttuazioni statistiche del nulla sono virtualmente infinite. Ciò implica che il nostro universo è solo uno degli infiniti universi che effettivamente sono nati. Per giunta, le diverse teorie cosmologiche concorrenti che spiegano l'origine dell'universo, prospettano uno scenario infinitamente più complesso della realtà. L'idea che la realtà sia, sul piano fisico, un multiverso caotico è ormai quasi un assunto acquisito dalla cosmologia. Al di là di questa idea di fondo, le diverse ipotesi definiscono scenari di vario tipo. Esaminiamone alcune.

La teoria dell'universo inflazionario, presuppone, al principio della vita del nostro cosmo, l'azione di un campo di forza, chiamato campo inflatonico (inflatone è l'ipotetica particella che lo contraddistingue), che ha la caratteristica di dilatare lo spazio a velocità superluminali (si badi, lo spazio: è lo spaziotempo che si curva e si gonfia, mentre gli oggetti restano in quiete e dunque il limite della velocità della luce non è violato). Dopo un certo tempo, il campo inflatonico cessa la sua azione e viene creato lo spaziotempo che noi conosciamo, con i parametri metrici che ci sono noti. Tuttavia, l'espansione originaria separa fra loro diverse "bolle" di spaziotempo, che non entreranno mai in contatto, e vivranno vita separata come universi del tutto indipendenti. Tale processo espansivo non si arresta mai, così che da ognuna delle singole infinite fluttuazioni del nulla originario si generano infiniti universi in un processo che il fisico russo Andrej Linde (il codificatore della forma estrema dell'espansione inflazionaria) chiama inflazione permanente. In poche parole, il nostro universo potrebbe, secondo la teoria di Linde, essere uno dei tanti derivati da una qualunque delle fluttuazioni statistiche che agitano il nulla (potrebbe essere un universo di seconda, terza, quarta, ennesima generazione). In uno scenario del genere, tutto ciò che è possibile, effettivamente avviene, anche se non per intrinseca necessità determinante (come nel vecchio paradigma meccanicistico), quanto piuttosto per estrinseca casualità, per la statistica dei grandi numeri (o meglio, degli infiniti).

Una particolare ipotesi (al limite della metafisica) è stata formulata da Richard Gott e Li Xin Li, i quali hanno pensato che in realtà il nulla originario statisticamente fluttuante sia una sorta di universo-madre, il cui tempo scorre circolarmente (la vita di questo universo è come quello di una viaggiatrice nel tempo che tornando nel passato partorisce se stessa). Gli universi come il nostro, caratterizzati da freccia del tempo lineare, sarebbero i figli di questo universo-madre (immaginiamo che la nostra viaggiatrice nel tempo, madre di se stessa, abbia nel frattempo, anche altri figli).

Teoricamente, nulla vieta di innestare la dinamica dell'inflazione permanente di Linde sull'idea dell'universo-madre, complicando ulteriormente il quadro dello spacetimescape (mi si passi il neoconio anglofono), del paesaggio cronotopico.

Un'idea ancora più interessante viene, sempre nell'ambito della teoria dell'inflazione, da Lee Smolin, che ho già nominato prima. Lee Smolin ha formulato la teoria dell'evoluzione cosmologica. Tale teoria si pone come uno sviluppo particolare dell'ipotesi della teoria dei molti universi formulata negli anni sessanta del ventesimo secolo da John Wheeler e da Hugh Everett. Secondo l'ipotesi Everett-Wheeler l'universo non fa che espandersi e ricontrarsi all'infinito, cominciando con la singolarità (un punto di sospensione della prevedibilità basata sulle leggi fische) di un big bang, e morendo con la singolarita di un big crunch (grande contrazione), per poi rinascere a mo' di fenice. A ogni singolarità tutte le leggi fisiche e tutti i parametri che definiscono l'ordine cosmico (il software dell'universo) vengono riprocessati, come in una sorta di gigantesca formattazione. Smolin assume l'idea dell'universo fenice con un correttivo: che ad ogni riprocessamento, corrispondente a una singolarità, i parametri e le leggi fisiche cambino casualmente, di poco. Una grande maggioranza di universi collasserà dopo un tempo infinitesimo, rinascendo e riprocessandosi, a partire da una sola singolarità. A ogni rinascità, l'universo si ristruttura, finché, per puro caso, assume parametri tali da provocare un'espansione, la nascita di nubi di aggregazione, quasar, galassie, stelle, pianeti. La morte delle stelle, specie di quelle più massicce, e l'addensamento di materia nei nuclei galattici, produce nuove singolarità, i buchi neri, che a loro volta, in base alla teoria di Smolin, producono nuovi universi, molto simili al nostro. Ora, in un universo come il nostro esistono cento miliardi di galassie, con un buco nero centrale, e in ognuna di queste galassie si ammassano fra i dieci e i trecento miliardi di stelle, di cui una minima percentuale (intorno al dieci per cento) di stelle supermassicce dà luogo a un buco nero e a una singolarità. Il risultato è che il nostro universo, altamente improbabile in linea teorica, dà luogo a centinaia di miliardi di universi figli simili al nostro (con galassie stelle pianeti), mentre l'universo senza atomi, galassie e stelle, in linea di principio altamente probabile, dà luogo a uno e un solo universo figlio. Alla fine, parafrasando Einstein, si può dire che non solo Dio gioca a dadi, ma gioca anche con dadi truccati, visto che l'universo meno probabile è anche quello che dà luogo al maggior numero di copie di se stesso. In questo strano scenario dell'evoluzione cosmica, perfino la presenza di esseri intelligenti sembra giocare un ruolo fondamentale, secondo certi scenari estremi tracciati dall'originale scienziato americano Paul Davies. Paul Davies assume i risultati di uno degli esperimenti mentali di un altro scienziato, che se non erro era Fred Hoyle, il quale immaginava un metodo per estrarre energia dai buchi neri, da un'area dello spazio vicino ai buchi neri che, per il suo forte momento angolare e per la forte energia cinetica che imprime alle particelle che vi arrivano e riescono a non cadere nel baratro, si chiama ergosfera (=sfera dell'energia). Teoricamente, per un'ipotetica civiltà interstellare, l'ergosfera dei buchi neri è la fonte di energia naturale più a buon mercato. Paul Davies, in un altro curioso esperimento mentale, immagina che degli esseri intelligenti, per sopravvivere in un cosmo in declino termodinamico, accelerino artificialmente la formazione dei buchi neri, per avere sufficiente energia. Accogliendo i risultati dell'esperimento mentale, Smolin ipotizza società interstellari che accelerando artificialmente il crearsi di buchi neri, intervengano ad accelerare il processo di formazione degli universi figli. L'implicazione di questa idea, è che il nostro universo potrebbe, in linea teorica, non essere il frutto di un processo naturale; esso si configurerebbe come il sottoprodotto casuale di una disperata corsa alla cattura dell'energia, da parte di intelligenze abitanti in un universo morente.

Un altro modo di vedere le cose, viene da una classe di teorie ancora più eterodosse, che si basano sull'idea, formulata dal fisico di origine portoghese Joao Maugeijo, che la velocità della luce non sia costante, ma varii nel tempo a determinate condizioni. Le teorie della velocità della luce variabile prevedono anch'esse scenarii di cosmogenesi infinita alquanto variegati; determinate osservazioni condotte dagli astronomi sulla variazione, per lo spettro luminoso di stelle lontane, di una grandezza che si chiama costante di struttura fine (e che dipende dalla velocità della luce), fanno pensare che forse l'idea di una velocità della luce variabile colga un aspetto vero della struttura del cosmo.

Qualunque sia il punto di vista che si abbraccia, e si potrebbe occupare molto spazio ad enumerare tutte le teorie in concorrenza, quelle superate dai fatti e quelle oggi in auge, resta fisso l'assunto di fondo che: 1) il nostro universo non è unico; 2) che esso deriva, verosimilmente, da processi quantistici di fluttuazione del nulla; 3) che, verosimilmente, la creazione di nuovi universi è costantentemente in atto per tutta l'eternità. Che la realtà sia poi oggetto di interrogativo, e che in qualche modo sia trasparente e suscettibile di interpretazione, è facilmente spiegato, sul piano fisico, dal cosiddetto principio antropico: quella che vediamo è la realtà strutturata che ha permesso la nostra evoluzione, che ci ha determinati a contare sulle dita e a esplorare il territorio per sopravvivere, finché tale istintualità sublimata non ci ha condotti a indagarne le ragioni e le strutture profonde.

Senonché, quelle di cui abbiamo parlato finora, sono teorie scientifiche. Ora, le teorie scientifiche rispondono a determinati parametri di controllabilità, e descrivono la realtà in linea ipotetica (tipicamente, una linea ragionativa e operativa propria della scienza è: date tali condizioni, la teoria prevede che accada una certa cosa). Ovviamente circa l'effettiva esistenza concreta di alcunché, circa l'effettivo accadere di un evento, circa l'aspetto ontologicamente duro del problema, la scienza non può fare alcuna previsione: può soltanto fornire spiegazioni operativamente più o meno efficaci (aspetto tecnico della scienza) e indicare un orientamento cognitivo di carattere critico, basato sulla ricerca dell'errore, sullo stabilire convenzioni terminologiche e di controllo, e sulla discussione delle controargomentazioni e dei linguaggi alternativi (comandi metodologici della falsificazione, della convenzione e della tolleranza, che poi sono l'aspetto filosoficamente "alto" della scienza).

Finora ho trafficato con teorie che mi dicono: può esistere qualcosa, e non il nulla, e se questo qualcosa esiste, può esistere in questo modo. Il problema che va affrontato, e riformulato, è piuttosto il senso dell'essere effettivo dell'essere e del mio esserci nelle circostanze che l'essere mi pone concretamente davanti. Ovviamente, a questo la scienza non risponde, non perché non possa attingere alle profondità delle cose nella loro struttura costitutiva, ma perché vi attinge secondo una prospettiva e un linguaggio che volutamente eludono la dimensione esistenziale e concreta del problema ontologico, soffermandosi semmai sulla dimensione ipotetica di un ontologia formale. L'universo ipotetico della prospettiva della conoscenza scientifica appare, per scelta degli osservatori: 1) come universo strumentalizzato (ridotto a possibilità di interazione tecnica con l'osservatore); 2) come universo generalizzato (ridotto a costruzione statistica e tipologica, indifferente alle circostanze esistenziali del singolo).

Ciò non vuol dire che la scienza sia uno strumento cognitivo inferiore, rispetto a una fantomatica filosofia prima o scienza dello spirito etc. etc. secondo pregiudizi che possono essere ricondotti a varie scuole di pensiero, dall'aristotelismo deteriore all'idealismo, che di principio condanna la scienza.
Semplicemente, la scienza, per sua disposizione strutturale, non si pone il problema di spiegare l'imponderabile accadere dell'effettualità delle singole esistenze ed esperienze. Ciò non vuol dire che si possa affermare tout court che la scienza non abbia implicazione sulla nostra visione del mondo e sul nostro modo di concepire l'esistenza. Qualunque ragionamento filosofico voglia affrontare il problema del perché dell'esserci di ogni singolo esistente nelle circostanze che l'essere effettivamente gli pone, non può prescindere dall'idea che gli esistenti in questione, noi, siamo esseri fisici biologicamente determinati, evolutivamente strutturati nel corso delle ère, su un pianeta di un sistema solare periferico di una normale galassia di un mini-ammasso locale all'interno di uno dei tanti cosmi di un infinito multiverso caotico.

Il problema essenziale, resta però, nella sua natura, estraneo all'essere (=totalità, universo-storia) strumentalizzato e generalizzato della scienza, che ci fornisce solo un pacchetto funzionale di definiti orientamenti e di indicazioni.

Il punto essenziale è il fatto che il mondo, l'essere, l'universo, c'è, si mostra, sia pur in modo plurivoco e problematico (non è un problema nemmeno che esso sia trasparente al linguaggio e alla conoscenza, questo in qualche modo viene da sé). Per dirla con il Mircea Eliade del trattato della storia delle religioni, l'esistere effettivo del mondo è una cratofania (=espressione manifesta di una potenza che trascende l'osservatore), potremmo dire la cratofania primaria e ultimativa. Sempre seguendo Mircea Eliade, alla cratofania si accompagna una ierofania (=manifestazione del sacro), tanto che il sacro (non inteso nel senso deteriore delle tradizioni degenerate in superstizioni, né ridotto alle posizioni delle rivelazioni storiche degenerate in dogma, fanatismo e repressione gerarchica), si rivela, depurato delle sue contaminazioni storiche, e ridotto a categoria formale, come l'unica categoria utilizzabile per approcciare il problema dell'esserci effettivo dell'essere, e del nostro effettivo esserci. Mentre il problema dell'essere in quanto res, in quanto sostrato cosale e ontico (= in quanto dura materia, hardware dell'esistenza), è risolvibile facilmente, demandando alla scienza il compito, altro è il problema dell'orientamento e della motivazione esistenziale, a cui la domanda ontologica fondamentale si deve ridurre, e che è decifrabile sotto la categoria del sacro.

Altri spunti, altrettanto illuminanti, vengono da pensatori contemporanei, come Giorgio Santayana e Eric Fromm.

In teoria, il problema ontologico, inteso come problema dell'orientamento esistenziale e della presenza dell'esistente come tale, potrebbe essere ignorato; o lo si potrebbe dare per risolto con una risposta nichilistica: una risposta di comodo, che riduce la conoscenza a interpretazione e a routine tecnica, all'interno di un indecidibile esistenza, frutto di un essere poroso e depotenziato, in circostanze nelle quali tanto vale lasciare che il plurivoco corso del mondo si avvii alla sua deriva destinale (vedi il pensiero debole di Vattimo & c.) assumendo un atteggiamento di ironia affettuosa verso visioni stigmatizzate come olistiche e consolandoci col fatto che siamo nati nelle società liberaldemocratiche occidentali, le migliori della storia (vedi il liberalismo ironico alla Rorty & c.).

In pratica, resta, sul piano della fenomenologia del reale, il problema della sostanziale deprivazione esistenziale che ognuno avverte, sotto forma di istintualità insoddisfatta, di inappagamento etc.: quel complesso di sensazioni deprivanti che costituiscono il fondamento di quella "fede animale" -di cui parla Santayana- circa la ontologicamente dura, e tutt'altro che porosa o esorcizzabile, presenza del reale e delle sue lacerazioni. Il dolore e la mancanza si pongono come veri e propri strumenti della percezione dell'esistenza concreta hic et nunc degli esistenti, come presenza altra e potenzialmente conflittuale. Si potrebbe definire il dolore come percezione della presenza (dell'essere)

Esiste poi un'altro aspetto della dimensione esistenziale, che è dato dal concetto di amore per come viene definito da Fromm, sulla base del bimillenario filone della tradizione giudaico-cristiana occidentale nel suo aspetto di rottura e di rivoluzione, incrociato con le acquisizioni della psicologia del profondo e calato nella dimensione di dialettica negativa propria di certi orientamenti hegelo-marxisti, attorno a cui Fromm in qualche modo si satellizza. L'amore fondato sul concetto di dono e per-dono (la relazione socioaffettiva definita dalla psicologia transazionale in base alla formula "io OK, tu OK). In effetti, l'amore come dono, si configura in sé e per sé come dono di essere, e lo si potrebbe definire, pertanto, come percezione(-attuazione) del fondamento (dell'essere). Soffermiamoci un momento ad analizzare il concetto del dono, del dari (alla latina: essere dato e darsi) dell'essere. Il dono, in quanto dono, presuppone un donatore e un donatario; presuppone inoltre l'alterità sostanziale del donatore rispetto al donatario. Il dono inteso in senso assoluto, implica, inoltre, nel donatore e da parte del donatore: 1) il non essere condizionato negli scopi (il dono è libero e non ha secondi fini); 2) l'essere dono di un che di positivamente concreto e reale (il dono è, ovviamente, dono di qualcosa, non di nulla o di apparenza); 3) il non essere condizionante (il donatario può rifiutare il dono); 4) l'essere gratuito e non richiesto (il donatario potrebbe idealmente aspettarsi un dono, ma la natura del dono, non essendo vincolante, lo rende imprevedibile e non richiesto); 5) last but not least, la progettualità del donatore (che però, ben inteso, si esaurisce nell'atto del dono, né vuole fare del donatario uno strumento). Tradotto in termini di darsi di essere e di dono di essere, il nucleo dell'essere è un fondamento 1) dotato di progettualità (quindi di una componente personale); 2) incondizionato (dunque libero e senza limitazioni strutturali a donare); 3) non condizionante (non ci fa strumento di fini più o meno metastorici). Ovviamente, il donatario, in quanto, nel caso specifico, fondato e altro dal donatore, per quanto sia ontologicamente autonomo, sarà però, plurivoco, condizionato, conflittuale. L'esistere frutto del dono ci vede liberi davanti al dono stesso, che come tale è gratuito e può essere accettato o rifiutato (il che ci può esaltare o nauseare, a seconda della quantità di serotonina che abbiamo nel cervello). Riassumendo ulteriormente, sul piano dell'orientamento e della motivazione esistenziale, l'esserci dell'essere e il nostro effettivo esserci va inteso, come per certa filosofia femminista americana, come un verbo, come un dari, un darsi, un essere dono e dato (di partenza), una posizione e positività logico-ontologica. Come tale esso suscita interrogativi, sul perché teleologico (il cosiddetto problema del senso oggettivo della vita) ancor prima del perché causale. In effetti, di fronte al darsi dell'essere come dono, il problema del senso dell'esistere (senso in quanto per-quale-ragione-e-scopo), si esaurisce da solo, perché non si pone altro problema della motivazione esistenziale individuale e dell'orientamento che vogliamo assumere al suo cospetto, considerando che, in quanto dono, non siamo strumento di nessuno.

Relativamente ad altre questioni spinose, che questo nucleo dell'essere, che è il darsi di un fondamento personale incondizionato che l'uomo percepisce nella dimensione del sacro (storicamente contaminata e plurivoca), sia in conflitto con la totale autoconsistenza ontologica della realtà fisica, o con l'evoluzione delle strutture del cosmo, delle galassie, dei pianeti, degli esseri viventi, nasce da un equivoco. In effetti, l'essere, al cospetto del suo fondamento, in quanto dono, è strutturalmente autonomo, al punto che la sua derivazione in limine dal fondamento appare intematizzabile; in quanto l'essere è strutturalmente autonomo, non è dato una volta per tutte, ma viene costruendosi ed evolvendo juxta propria principia per estrinsecazione della sua propria natura, come un bambino che impara da solo a camminare.

O così almeno penso che si possa argomentare.

Ma ora la smetto, che ho debordato di parecchio.

Edited by Outisemeuzontos - 13/9/2006, 15:06
 
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