| Ed ecco qualche dato sui quattro poeti in gioco.
Di Nadia Marino scrive Peppe Lanzetta: «Un giorno stavo in auto ad aspettare. Non sapevo cosa fare così presi una cartellina che mi aveva dato una giornalista alla presentazione del mio romanzo Giugno Picasso. Conteneva poesie che non avrei letto mai, se non le avessi trovate davanti in un momento di noia, anche se conoscevo la giornalista da anni. Eravamo amici. Iniziai a leggere queste ballate e man mano che leggevo mi sembrava di averle scritte. Leggevo delle Vele di Scampìa, delle storie dei tossici, degli zingari, dei neri, di puttane e travestiti, della passione, e vedevo i luoghi del mio Bronx napoletano, quelli descritti nei miei libri. Rimanevo sempre più stupito dalla somiglianza delle storie, dal senso di appartenenza che mi emozionava leggendo. Allora, ancora sotto l’emozione del momento, le telefonai e le dissi con enfasi: “Ma tu sei un poeta!”. Le galere quotidiane a cui fa riferimento l’autrice non sono solo le brutte storie di povertà, di furti, di tossicodipendenza, di segregazioni nei ghetti, come quello di Villa Literno o nei Campi Nomadi, magari nell’inferno delle Vele di Scampìa. Sono anche le galere che rinchiudono le persone nel pregiudizio, nello stereotipo; oppure quelle di ognuno di noi in preda alle passioni. I momenti in cui si finisce per essere personaggi alla deriva per situazioni che ci fanno cadere nella fossa dei serpenti, nella quale si soccombe oppure dalla quale si esce più autentici, più umani» [dal paratesto di Galere].
Marco Palasciano rappresenta per Edgardo Bellini «il vertiginoso e spettacolare dominio della parola che conduce ad esiti di commovente bellezza. Un florilegio di liriche 1994-2008 (tra l’altro sarà letta Visita a una discarica illegale di ceneri tossiche nella campagna tra Napoli e Caserta) di uno dei più geniali poeti contemporanei, per una corona di minuti di limpido o torbido piacere musicale, concettuale, passionale e trascendentale. Nell’acrobatismo palascianesco delle forme e degli stili, la contemporaneità si ibrida di continuo con i fantasmi della tradizione classica: a lato della versificazione libera fioriscono sestine, sonetti, ipersonetti, canti in terzine, feste di settenari e endecasillabi, di rime e rimalmezzo, dove Palasciano riesce nel miracolo di dare novissima freschezza a materiali che in mano altrui saprebbero di muffo. Nel laboratorio del poeta si attuano, al contempo, procedimenti di sintesi geometrica delle idee, e altri piú misteriosi; né manca, ovviamente, la ludolinguistica: si veda Storia di un umanesimo negato, già il cui titolo è anagramma del sottotitolo, Un sonetto ed i suoi anagrammi. Ma i vincoli formali non inficiano mai il contenuto, che resta alto-poetico, con punte filosofiche di lacerante dolcezza (e, in compenso, acri sprofondi osceni); a tutto ciò si unisca che l’autore è anche attore, per nulla accademico (benché presidente di un’Accademia): e si otterrà che sarà impossibile annoiarsi» [Edgardo Bellini, introito a una lectura Palasciani].
La poesia di Luca Tescione (che, laureato in Fisica subnucleare, lavora come analista-programmatore) «nasce come equilibrato e delicato punto di riflessione sulla propria esistenza, sulle passioni, che sempre rendono il sangue bollente, e sul disincanto, che fin troppo spesso si fa compagno di vita. In questo senso la silloge diventa strumentale all’autore per farsi specchio, guardarsi dentro e cercare di trovare il bandolo di una matassa chiamata vita, che non di rado si riavvolge e si conchiude in sé stessa. Ma nonostante sia attraversata da una forte tensione emotiva, questa poesia è estremamente delicata, non si lascia attirare nei facili tranelli della autocommiserazione o al contrario di una passionalità eccessiva e fine a sé stessa. Invece, con una estrema grazia stilistica Luca Tescione si fa portavoce di un sentire collettivo, per quanto doloroso, un sentire che va a evidenziare le difficoltà dell’esistenza e in particolare il precariato sentimentale di cui tutti soffriamo. Ecco quindi che la sua opera si apre con la denuncia di una fondamentale stanchezza dell’anima, un dolore sordo che sottolinea il senso di inutilità e di fatica di vivere che abbraccia per forza di cose l’umanità intera» [dal paratesto di Miserie di metà vita].
Andy Violet «è un poeta di concetto, d’astrazione, a cui basta svuotare gli oggetti e le persone per renderle forme poetiche, corpi emozionali legati non a rotture, ma ad esitazioni metriche, come messaggi registrati sul nastro di una segreteria telefonica che annientano la capacità di capire e celebrano la capacità di sentire. Per fare questo, l’autore si serve di tutto: pezzi di testi classici, turpiloqui e linguaggi settoriali, personaggi da nouvelle vague e paesaggi condensati, come visti dall’oblò di una nave – lasciando erompere dalle guide uno strano senso di metafisica anche nelle azioni più turpi: il custode dell’obitorio necrofilo in Nekrolog non riesce ad accendere in noi la ripugnanza, l’ermafrodito ci appare come il nodo plotiniano del mondo, il masochismo strisciante assume il ruolo di liberazione del sé dalla coscienza in Amare è servire. Accanto a temi forti di palese natura sessuale, Andy Violet accosta con spiazzante garbo piccoli resoconti di viaggio, come Islanda, quasi idillica. Ma è nella lirica amorosa che la musa dell’autore trova la sua forma migliore: la descrizione del volto di Corrado nell’omonima poesia, lo spossante viaggio in un albergo in cui gli specchi “all’improvviso non sanno più parlare”, conferiscono alla sua penna il dono dell’immediatezza, di una scrittura sorgiva, dall’ispirazione compatta, senza bisogno di mediate ricostruzioni che altrove fanno la loro comparsa e smorzano il moto emozionale» [Nicola Amendola – Mario Delia, dalle rispettive recensioni a Mutae Divae].
Edited by Hamlet da Hamelin - 3/12/2008, 15:10
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